Testo di Floriano De Santi, Brescia 2011

Il “fiore azzurro” nel sogno per icone di Silvana Martignoni

Quando Joseph Conrad nel Cuore di tenebre allontana la nebbia con il suo gesto di creatore sovrano, l’universo che esce di colpo dal silenzio e dal sonno ci sorprende per la sua evidenza. Ma subito dopo aver strappato questo universo dalle tempeste di grandine, dalle nuvole che sfuggono precipitosamente nel cielo, dai soli morenti che accompagnano la physis, la natura che organizza la vita, lo scrittore inglese ve lo reimmerge. Allo stesso modo di Conrad, il vero significato dell’Unheimliche freudiano, del perturbante nello sguardo di Silvana Martignoni non è dentro la visione enigmatica, come un gheriglio dentro la noce; ma all’esterno di esso, e avviluppa il racconto per icone “come uno di quegli aloni nebulosi resi visibili dalla luce della luna”.

Se il kosmon apatelon, l’universo ingannevole stesse chiuso dentro le cose, sarebbe delimitabile e raggiungibile: ma chi può afferrare tutte le possibilità irraggiate da un punto di suggestione e di stupore? Ecco, esaltandosi e accendendosi per captare quello che le sfugge, la Martignoni sa, con Nietzsche, che “al di fuori dell’apparenza non vi è nulla”; ma sa anche che in questa apparenza c’è un vuoto che dissimula l’essere, il daimon che proprio in ciò che appare, in ciò che c’è, deve essere inseguito, in quanto – come ci avverte il filosofo tedesco ne Il viandante e la sua ombra – “ciò che è significa ben più di ciò che è”. Nei dipinti dell’artista lombarda si aprono paesaggi onirici e fantasmagorici, tarsie chiare di neve, di madreperla o di cerulea nebbia, con colori quasi sempre diafani in cui la luce sprofonda e si dilata in un’alba lontana, primaverile ma ancora nuvolosa; gli spazi si susseguono, si intersecano, rimandano l’uno all’altro in una vertigine insensata, come avviene nel Novecento solo nelle rêveries poetiche e filosofiche di Borges e di Calvino.

Forse simile all’ars combinatoria di un antico tessitore persiano, che costruisce arazzi immensi incastrando storielle quasi invisibili, la Martignoni predilige e coltiva l’arte dell’intreccio e del riflesso; e queste “piccole schegge” si illuminano a vicenda, suggerendo allusioni prospettiche e architetture labili e infinite, che fiori ed alberi, colline e cespugli come ventagli, giardini mediterranei e foreste esotiche, cieli notturni e lune, Elefanti cugini delle nuvole (tanto per riprendere il titolo di un suo suggestivo acrilico su tela del 2011) e tartarughe marine, appaiono e scompaiono nella sua pittura in una sorta di dialettica realtà-finzione, è un fatto acclarato dalla critica martignoniana più avveduta: da Gianfranco Bruno a Riccardo Barletta, da Miklos N. Varga ad Elvira Cassa Salvi. Semmai, la correlazione presenza-assenza, la sfuggente coincidenza visibile-invisibile, anche là dove s’intenda porre l’accento su ciò che non è (e l’assenza si dà comunque, scrive Emmanuel Lévinas in Alterité et transcendance, come presenza del proprio opposto, nel quale rispecchiandosi prende corpo) si offre allo sguardo, è visibile, mutata sempre in forma ben definita.

Intanto che nelle puntesecche Densità e Intorno della fine degli anni Novanta lo spazio bianco del foglio, in cui avvengono gli eventi immaginari della natura, non è un progressivo nullificarsi del segno nero nell’horror vacui; al contrario è un drammatico spazio testimoniale in cui l’artista accerta la situazione attuale del pensiero e dell’esistenza ormai sospesi a questo fragile balenare di coscienza e di fenomenologia, nei quadri Il silenzio della luna del 2008, Mon jardin del 2009, Guardando Bonnard del 2010 e La natura emana la sua musica del 2011 c’è una sottile e aerea intonazione d’Oriente: all’hic et nunc del segno inciso sulla lastra di metallo si è costituito nella pittura il proustiano jadis et ailleurs dell’evocazione, del ricordo, del deposito interiore. Senza cedere a sublimazioni di spiritualismo Zen, tutto ciò lo si può intuire nella frantumata ripartizione della superficie cromatica, nella convergenza dei profili labirintici verso un punto centrale (e, in tal senso, si vedano tele quali India, un equilibrio perfetto del 2010 e Nido di rose dell’anno seguente), nella struttura compositiva che tende a sovrapporre esterno ed interno, psiche compresa, creando prospettive speculari e metamorfiche (Pezzi di cielo del 2008 e Il giardino della principessa del 2010).

Già nella pittura romantica agiva la stessa predilezione per il sentimento dell’indefinito, per la suggestione di atmosfere, che si esprimono appieno nel genere del paesaggio: persino quello privo di forma, aneidos per Plotino, diventa paradossalmente esperienza e dunque conoscenza in una forma. L’artista non è forse, in primo luogo, l’occhio misterioso spalancato sopra il mondo? La “mente colorata” aperta sopra tutti i pensieri? Dal “fiore azzurro” che appare in sogno al protagonista del romanzo Heinrich von Ofterdingen di Novalis fino all’impercettibile “risonanza psichica” delle Elegie Duinesi di Rilke, percorrono anche le immagini della natura della Martignoni, perché quelle immagini scaturiscono dalla sua profonda esperienza artistica, come anche dalla sua vita interiore, che trasforma ogni fragilità in forza, ogni trasparenza fabulistica in solidità simbolica. Dietro al suo lavoro grafico e pittorico c’è ancora un velo, e poi un altro velo, e poi un altro velo ancora, e questo ingannevole gioco di forme, dove tante luci e ombre s’intrecciano, richiama la dimensione dell’invisibile, con una differenza fondamentale rispetto al paradeigma di Klee (“L’arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile”): per la Martignoni l’invisibile, imprigionato nella trama dell’opera, deve mantenere tutta la ritrosia e il mistero dello sguardo in tralice sull’anima segreta.

Floriano De Santi