A SILVANA MARTIGNONI.
L’incisione è stata la prima forma di comunicazione dell’umanità. Lo testimoniano le incisioni rupestri rinvenute in diverse parti del globo. In seguito le modalità espressive si sono ulteriormente arricchite.
Lo sviluppo dell’incisione e delle sue tecniche è in gran parte legato alla possibilità di ottenere la riproduzione di un soggetto in diversi esemplari mediante la preparazione di matrici incise che, inchiostrate e premute contro un foglio di carta, rivelano l’immagine disegnata dall’artista sulle stesse.
Nelle incisioni su metalli (rame, zinco, ottone, acciaio) che sono le più praticate, il disegno viene inciso in cavo sulla matrice in modo che l’inchiostro vi si depositi.
Il solco sulla lastra si ottiene con la forza della mano o mediante l’azione di acidi, generando due gruppi fondamentali: al primo appartengono il bulino, la puntasecca e la maniera nera (o mezzatinta), al secondo l’acquaforte, l’acquatinta, la maniera punteggiata e la vernice molle.
Gli artisti nelle loro continue sperimentazioni sono riusciti però ad assemblare contemporaneamente le diverse tecniche. Infatti, nella modernità l’acquaforte è spesso combinata con l’acquatinta, la puntasecca, la maniera nera, il bulino.
Già nota in Cina attorno al V° secolo, l’incisione su legno sviluppatasi in Giappone con risultati sorprendenti e conosciuta in Francia nel tardo ‘800, arrivò ad influenzare direttamente la pittura europea del periodo.
Naturalmente, le tecniche calcografiche sono state impiegate dai maggiori artisti di tutti i paesi e di tutti i tempi.
Per quanto riguarda le arti grafiche del XX° secolo, l’avvento delle comunicazioni di massa ha introdotto abitudini e comportamenti radicalmente nuovi rispetto al passato. Le immagini nelle loro multiformi varietà tendono soprattutto a sostituire la parola scritta, grazie anche allo sviluppo delle tecniche di riproduzione seriale dell’immagine a stampa, procedimento parzialmente o totalmente meccanico che tuttavia solleva implicazioni(e dubbi) a livello estetico e culturale.
L’adozione di tecniche semplicistiche come la fotoincisione, la prevalenza di esigenze puramente commerciali sui valori artistici, le connivenze fra alcuni artisti e mercanti che non si fanno scrupoli di immettere sul mercato tirature eccessive, a volte grazie anche alla compiacenza dei critici, negli ultimi decenni hanno danneggiato il settore, particolarmente in Italia, dove i lavori su carta sono spesso considerati “opere minori”. Mi piace qui sottolineare che la grafica è una attività espressiva specifica. Lo stesso Albrecht Durer, autore di tavole di rara bellezza, sosteneva che per le sue intrinseche qualità un’opera incisa deve essere apprezzata alla stessa stregua di un quadro o di una scultura.
In tale assurda situazione fortunatamente resiste una limitata frangia di appassionati ed artisti in grado di operare nel campo con estrema professionalità e originalità espressiva.
Tra questi si segnala la bustese Silvana Martignoni, che vanta un curriculum di non comune spessore.
Formatasi all’ Accademia di Brera con una tesi finale sul poeta ed incisore inglese William Blake e specializzatasi nelle tecniche incisorie ad Urbino, nel 1983 le viene assegnato il primo premio assoluto nella XXII° edizione del Premio Internazionale Joan Miró presso la Fondació Joan Miró di Barcellona.
Molto attenta e selettiva nelle sue scelte, la Martignoni espone in spazi pubblici e privati ed in rassegne di una certa importanza, ma è ben conosciuta e considerata anche nel campo degli “ex libris” dove pure gode di una reputazione internazionale.
Già agli inizi della sua ricerca, un segno sottile ma acuto, deciso e pulito, si proietta in uno spazio che non ha prospettiva, coraggioso nella leggerezza con cui si propaga liberamente in un inconscio che non ha misura né tempo.
Rami di un albero, vibranti e vitali, che sembrano sorgere con una loro intrinseca forza dall’intimità per diventare tracce di una realtà incancellabile, mi fanno pensare a quanto ebbe a scrivere Blaise Pascal nei ‘Pensieri’: “L’uomo, è solo una canna, la più fragile della natura, ma una canna che pensa”.
In questi pochi rami, poetici nel loro apparente isolamento, la Martignoni condensa la propria riflessione sull’avventura umana, sulla caducità della vita, sulla sua fragile finitezza, ma anche sulla grandezza degli “esseri pensanti”.
L’artista si compenetra nella Natura, simbolo di una realtà nel contempo conosciuta e sconosciuta, oltre che alfabeto primario della vita umana, quasi a voler ricercare un rapporto più sostanziale e diretto a scoprire l’originaria essenza delle cose.
La stringatezza strutturale dell’immagine a volte può sembrare un tentativo di condensare il tutto in presenze stilizzate, ma così non è, poiché il messaggio che ne deriva è vibrante e profondo e la finezza del suo fraseggio non è mai fine a se stessa, ma densa di tensioni, anche se espresse con riflessiva compostezza.
Poi, questo stare in punta di piedi nel panorama della grafica pura e schietta, trova spontaneamente una sua evoluzione, frutto maturo delle precedenti esperienze.
E’ ancora la Natura ad essere argomento da trattare, ma nel suo aspetto più arcano e visionario, in quella forza immanente che la fa rinascere nella diversità.
Usa ancora il registro figurativo, motivato dalla esplicita volontà di riportare alla luce, con enfasi, anche gli aspetti immaginifici della realtà nelle percezioni più segrete.
Quale ambiente naturalistico scegliere se non quello misterioso dell’Oriente, con vegetazione tanto splendida quanto misteriosa, con i rituali mistici, le metamorfosi incessanti, le vicende arcane?
In questo ambito la fantasia non ha barriere e può scorrere liberamente giocando sull’occulto fra ombre e luci con valenze esoteriche.
Ed a rendere più enigmatiche le sue invenzioni non mancano nemmeno le presenze di animali che tendono ad assumere significati arcani.
La fervida fantasia della Martignoni non può arrestarsi davanti all’uso del colore ed a mappe cromatiche in linea con la sua personalità espressiva.
La sue trame appaiono meno incipienti ed assiepate rispetto a quelle impostate sul bianco e nero. Anzi, soprattutto quando la tavolozza è incentrata su tonalità leggere e le icone sono depurate dai segni, tutto pare fluttuare in uno spazio quasi monocromo, sottilmente emotivo, con variazioni di luci e colori che sembrano lentamente rinvenire dal fondo, assecondando un fenomeno di germinazione e di sboccio, in una metamorfosi incessante.
E’ un linguaggio di origine intimista che può rivelarsi semplice, ma è limpido nello sviluppo spaziale che risponde al sentimento e si apre alla luce chiara, allusiva.
La Martignoni ha seguito in tal modo la via della pittura lirica, senza incertezze, ottenendo risultanze che hanno un loro timbro originale e che rispondono alla coerenza intellettuale che ha sempre guidato la sua singolare ricerca.
Ettore Ceriani
Luglio 2016.